In ricordo di mio fratello

Giorgio Ravelli

 

 

Gianni Roghi nella rivista L'Europeo 3/1971

Siamo andati a vedere la preparazione del lancio del satellite San Marco. Dal poligono galleggiante di Formosa Bay (Kenia) partirà entro un mese il satellite scientifico italiano: il progetto, appoggiato dal governo, è finanziato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e il costo complessivo è previsto in quattro miliardi e mezzo.

 

A cavalcioni di un tubo d’acciaio, su un vuoto di una quarantina di metri, un po’ come Harold Lloyd sul grattacielo, l’ingegner Giuseppe Spampinato mi spiega il razzo. Anzi, lui dice il vettore. Mi ha fatto salire quassù (io sono a cavalcioni di un altro tubo di fronte a lui, e ogni tanto do un’occhiata al mare verde sotto i piedi) per mostrarmi la panoramica delle due piattaforme, quella di lancio e quella d’appoggio. Dalla piattaforma San Marco, verso la fine di gennaio o ai primi di febbraio, partirà il satellite scientifico italiano. Noi ci siamo arrampicati sulla più alta torre dell’altra piattaforma: la Santa Rita.

 

 

L’ingegner Spampinato, trentotto anni, catanese nato a Trieste, maggiore del genio aeronautico, è il direttore della grande baracca. Per la precisione, il supervisore meccanico del razzo e delle infrastrutture a terra. È l’uomo che porta avanti l’Italia spaziale, sotto la direzione programmatica del professor Luigi Broglio, ordinario di costruzioni aeronautiche dell’università di Roma, generale dell’aviazione. Spampinato dondola le gambe nel vuoto e sorride: le cose, dice, stanno andando bene. Gli chiedo se è vero che è stato lui a eseguire il più bel lancio del razzo Scout negli Stati Uniti. Si schermisce ma poi finisce con l’ammettere: “È stato nel dicembre del ’64, al poligono della NASA in Virginia. L’equipe italiana doveva dimostrare agli americani che ormai era matura per lo Scout a quattro stadi. L’anno prima avevamo lanciato un bistadio per imparare, sempre in Virginia: era andata bene. Nel marzo  ’64 avevamo fatto un altro lancio da Formosa Bay, qui sulla costa del Kenia, per provare il poligono su piattaforma in mare: bene anche qui. I1 lancio del quadristadio era l’esame di laurea. Gli americani ci hanno detto che nessuno Scout era mai stato sparato così perfettamente”.

 

 

Le due piattaforme brulicano di uomini e cose. Uomini bianchi e uomini neri. Gru, montacarichi, enormi ruote dentate, cavi. “C’è ancora un po’ di confusione”, dice Spampinato quasi a chiedere scusa, “ma ormai il tempo stringe. Poi, vede, lo spazio non è molto, non siamo a Cape Kennedy”. La piattaforma San Marco, da cui partirà il razzo, è di origine USA: serviva a trasbordare merci dalle navi ai battelli e alle chiatte là dove non esistono porti. È dotata di venti zampe mostruose, cilindri di acciaio azionati da martinetti pneumatici, che ora s’innalzano al cielo ma che una volta sul luogo s’immergeranno fino a posarsi solidamente sul fondo. Nel centro, un lungo capannone, e nel capannone il gran razzo coricato, ventitre metri di lunghezza, venti tonnellate di peso. È lo Scout costruito dalla Ling Temco Vought. Nel capannone, tutto luci colorate misteriose, aria condizionata, aggeggi strani, tecnici che si muovono silenziosi, quasi astratti, c’è già il clima lunare. Mi ha fatto un certo effetto, poco fa, durante la visita, udire improvvisamente uno di questi tecnici parlare e dire cose incomprensibili, ma in romanesco. Anche il linguaggio di Alberto Sordi può dunque andare bene per la ionosfera.

Appollaiato sul suo tubo aereo, Spampinato mi spiega che lo Scout viene montato stadio per stadio sul suo lanciatore, in posizione orizzontale. Quando tutto sarà pronto, la torre metallica del lanciatore si solleverà portando con sé il razzo, e sistemandolo così in posizione verticale di lancio. A questo punto verrà praticato un foro nella piattaforma, proprio sotto la base del razzo, affinché i gas di scarico, al momento della partenza, sfoghino direttamente in mare e non sulla piattaforma, per evitare pericolose vibrazioni. Quando avrà inizio il conto alla rovescia la piattaforma San Marco sarà lasciata sola col suo razzo, in mezzo alla Formosa Bay. I tecnici opereranno dalla piattaforma numero due, la Santa Rita, collegata alla prima da una ventina di cavi sottomarini, diciassette dei quali forniti dalla Pirelli.

La Santa Rita, che è un poco più piccola, rappresenta la centrale di controllo: su di essa, oltre al radar, sono piazzati i vari gruppi elettronici di comando. È una piattaforma a tre gambe, che serviva all’ENI per prospezioni petrolifere. Una terza piattaforma, ancora più piccola, dotata di centrale elettrica indipendente, completerà la flotta insulare. La torre sulla quale stiamo discutendo come uccelli marini non è altro che una delle tre zampe della Santa Rita: anch’essa, azionata da cricchi mostruosi, scenderà nelle acque giallognole della Formosa Bay per ancorare lo zatterone di ferro. Il supervisore delle piattaforme è un napoletano, l’ingegnere Gennaro Orsi, capitano del genio aeronautico.

Ma siete tutti militari?, domando a Spampinato. “I1 novanta per cento del personale è dell’Aeronautica”, risponde, “ed è un fatto un po’ curioso perché, come vede, stiamo lavorando sul mare”. Gli scienziati e i tecnici del satellite fanno parte, in prevalenza, dell’università di Roma. I1 supervisore della parte elettronica del satellite è l’ingegnere professor Giorgio Ravelli, anche lui comunque imparentato col genio aeronautico. Questo Ravelli, dico a Spampinato, me lo ricordo bene; era un mio compagno durante la Spedizione Zoologica Nazionale in Mar Rosso del 1952-53. Allora faceva l’università (oggi ha trentasette anni), e aveva già inventato diabolici sistemi d’illuminazione subacquea per il nostro film a colori, il famoso “Sesto continente”. Lavorava con un cacciavite, una pinza, quattro valvole e un po’ di nastro isolante, e combinava prodigi, lo chiamavamo Età Beta. Sì, sorride Spampinato, è un cervello che si è guadagnata la carriera. I1 supervisore invece del complesso tecnico in generale è il professor Michele Sirinian, assistente di Broglio. È uno dei più vecchi: quarantatré anni. Tutti gli altri hanno un’età che varia fra i trentacinque e i trentasette. I1 decano è l’unico marinaio qui presente: il comandante Wolfango Mandini, cinquantaquattro anni. Gli ho chiesto come se la cavano gli aviatori su queste zattere, ha risposto “non c’è male”.

 

Con Cavour al tavolo spaziale

Il progetto San Marco, appoggiato dal governo, è finanziato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. La gestione è del Centro ricerche aerospaziali dell’Aeronautica in collaborazione con l’Università di Roma. Spampinato mi dice che il costo complessivo è previsto in quattro miliardi e mezzo: “Veramente niente a confronto delle spese congeneri americane”. Con questo lancio, l’Italia si confermerà “terza potenza spaziale insieme alla Francia”, dietro Stati Uniti e Unione Sovietica. “Non è ovviamente il caso”,dice Spampinato, “di parlare di competizioni: ma rimane positivo che l’Italia acquisisca una nuova tecnica di ampie prospettive future”. Per potersi “sedere al tavolo spaziale”, come direbbe Cavour, non occorre andare sulla luna, ma dimostrare di avere una voce seria in capitolo.

Questo lancio, chiedo, sarà tutto italiano? Sì, dice Spampinato, se si eccettua ovviamente il vettore. Ma oggi i razzi si comprano sul mercato, e non avrebbe senso economico impiantare una fabbrica italiana per i pochi vettori che occorrono al nostro programma. Integralmente italiano è invece il satellite, che è un gioiello di tecnica, oltreché qualcosa di originale anche sul piano teorico. Soltanto italiani, infine, sono i piani di lavoro e gli stessi tecnici. Il San Marco sarà il primo satellite al mondo lanciato da una piattaforma in mare. Le maestranze italiane che sono qui sulla costa di Mombasa da cinque mesi sono una sessantina: si tratta in prevalenza di giovani sottufficiali del genio aeronautico; le inflessioni meridionali sono le più comuni. Sono stati assunti, per le fasi preparatorie, una cinquantina di indigeni, manovali, montatori, brasatori, eccetera, ciò che ha reso ancor più cordiali i rapporti con il governo keniota. Dunque niente americani? “Li abbiamo invitati, naturalmente”, dice Spampinato, “e manderanno una delegazione di osservatori per assistere al lancio”.

Parliamo del satellite. A che cosa serve? “È un satellite per la ricerca scientifica”, risponde Spampinato. “I1 suo lavoro sarà di rilevare la densità dell’aria al limite estremo della ionosfera. In questa regione, ancora imperfettamente conosciuta, l’atmosfera è estremamente rarefatta, le molecole d’aria sono isolate e molto distanziate. Il satellite le incontrerà e darà il rilevamento con continuità, girando intorno al pianeta su un’orbita equatoriale piuttosto bassa, ma costante. Questo satellite, con il suo lavoro, coronerà tutta una serie di studi prettamente italiani sul problema, durati quattro anni, e fornirà una somma di dati particolarmente utili ai fini della ricerca spaziale. Gli americani, per esempio, sono molto interessati alla buona riuscita del nostro programma”.

E il satellite com’è fatto? “Peserà circa 115 chilogrammi. Adesso è negli Stati Uniti, dove lo stiamo adattando al quarto stadio dello Scout. Poi verrà inviato qui per via aerea. È composto da una sfera di massa interna pesante, e di un involucro leggero. Quando incontrerà una maggiore densità, e cioè quelle tali molecole isolate e distanziate verrà impercettibilmente frenato: la massa pesante interna, che è sostenuta da una bilancia, sarà indotta a venire avanti per effetto di inerzia, così come succede a un passeggero di un’automobile che frena. Questi spostamenti agiranno su speciali resistenze elettriche, che daranno via radio l’informazione in codice. I rilevamenti saranno captati e decodificati da una nostra apposita stazione a Nairobi”.

 

 

 

Adesso lanciano, poi si vedrà

L’8 novembre scorso le piattaforme sono partite a rimorchio dal porto di Mombasa, hanno affrontato nuovamente l’Oceano Indiano, sono felicemente arrivate al poligono prestabilito, la Formosa Bay (l’isola di Formosa, evidentemente, non c’entra niente). Questa baia è poco a nord di Malindi, graziosa cittadina del Kenia. È stata scelta perché riparata dai venti più pericolosi, quelli meridionali, dal capo Ngomeni. Le acque su cui le piattaforme allungheranno le zampe per ancorarsi sono fra le due e le tre miglia dalla costa, cioè al limite delle acque territoriali keniote. I1 punto non è proprio sull’equatore, ma leggermente a sud: 2 gradi e 8. Il vettore dovrà eseguire la correzione e il satellite dovrà entrare nella sua orbita equatoriale subito dopo il lancio.

L’ingegner Spampinato mi guida nuovamente nella discesa da trapezisti dalla torre della Santa Rita, mi presenta i collaboratori. C’è fervore, ottimismo, orgoglio a ogni livello. Quasi nessuno era mai stato in Africa prima di questa lunga esperienza, ma nessuno si lamenta del clima umido, delle piogge, del calore. Nessuno abita nei lussuosi alberghi turistici ad aria condizionata: gli stessi dirigenti vivono in un alberghino di seconda categoria. Di sera, per tirare le dieci, si scatenano battaglie allo scopone scientifico. Pare che il tenente colonnello ingegner Roberto Solimena, supervisore delle stazioni radar, sia maestro dello spariglio in fase offensiva, mentre l’ingegner Gianfranco Manarini, supervisore della guida e controllo del razzo, è ampiamente dotato nella difesa del settebello da mazziere.

Ci sono anche i sommozzatori, che hanno lungamente esplorato i fondali dove devono appoggiarsi le gambe delle piattaforme. Le acque non sono profonde, dicono: sui nove metri circa; ma piuttosto torbide. In principio c’era una gran paura per i pescecani, e i sommozzatori venivano inviati sul fondo dentro gabbioni di ferro. Ma passando i giorni, di squali non se ne vedevano proprio, così che alla fine le gabbie sono state eliminate e i sommozzatori hanno continuato a tuffarsi liberamente.

Con questo lancio, dice Spampinato il nostro programma sarà concluso, speriamo felicemente come fin qui è proceduto. Che cosa accadrà dopo? Mah, dovranno decidere il governo e il Consiglio nazionale delle ricerche. Quattro anni per arrivare a sparare il pallone intorno all’equatore, per farlo bene. Poi si potrà andare avanti con nuovi programmi più ambiziosi, rimanere al passo con il progresso tecnico e scientifico, tanto più che i francesi ci danno dentro con molte energie. Oppure, per la storia delle alluvioni, potrà venir rimesso tutto nel cassetto. E allora sarà rimasto il ricordo di una bella avventura, in questo caso un ricordo un po’ amaro. Ma Spampinato e i suoi sono ottimisti. Siamo o non siamo diventati la terza potenza spaziale, con quattro soldini?

 

Estratto da Sesto Continente di Folco Quilici

 FOTOGRAFO E SCRIVO

 

Prima macchina fotografica nelle mie mani fu una Rolleicord di mia madre pittrice. Come fotografa amava la visione reflex e il formato quadrato, dal quale traeva solo in qualche caso stampe in formato orizzontale o verticale. Quella preferenza e quel gusto mi sono state trasmesse con il DNA di famiglia, tant’è vero che pur ereditando (da mio padre) una Leica “anni Quaranta”, splendida e completa di borsa in pelle e tre obiettivi, la cambiai con una delle prime Hasselblad 6x6; senza vantaggi dal punto

di vista economico ma con massima soddisfazione nel lavoro. Infatti, aiutato dalla Fowa, ho continuato e continuo a lavorare con l’Hasselblad passando di modello in modello e collezionando vari obiettivi, con un amore particolare per il magico Super-Wide.

Sul mio inizio come fotografo del mare e del suo mondo sommerso e la mia prima esperienza con Sesto Continente, del ’52, debbo ricordare un alleato prezioso, un coetaneo ventenne, futuro ingegnere spaziale, Giorgio Ravelli. Dopo audaci esperimenti nella vasca da bagno di casa, lui ideò un blimp con flash a lampadine usabile sott’acqua, esattamente come in superficie. E perfezionò poi in

Mar Rosso a tal punto quel suo marchingegno, da precedere d’oltre un anno i laboratori specializzati, tanto da consentirci di piazzare i risultati dei nostri lavori molte lunghezze avanti le altrui immagini subacquee a colori; e ci offrì la soddisfazione di veder pubblicate due volte nostre immagini su “Life” (il

top dei top delle riviste illustrate, allora).

Citando gli inizi, vorrei qui aggiungere alcune parole sulle difficoltà di noi pionieri. La prima dipese dai luoghi isolati ove operammo; atolli d’Oceania, coste africane, Artico, Amazzonia lontani qualche migliaio di chilometri da laboratori di sviluppo e stampa; di conseguenza potevamo vedere i risultati ottenuti dalle nostre foto (sulle quali gravavano sempre dubbi di riuscita) solo mesi e mesi dopo averle scattate (spedizioni e missioni erano interminabili: quasi un anno per Sesto Continente, un anno per

Ultimo Paradiso, etc. etc.). S’aggiungeva, a questa, un’altra difficoltà non indifferente: il dover affrontare con scorta limitata di pellicola lunghi tempi di lavoro. Occorreva scattare… solo a colpo sicuro! (ricordino questo i signorini di oggi, ricchi di schede elettroniche con immagini a disposizione in quantità ieri inimmaginabili; e per di più subito visibili)…